La società del palcoscenico

Vita e performance attraverso l’arte

Mariachiara Giglio

6/13/20256 min leggere

«In sostanza, ancora oggi non ho idea di come funzioni l’essere umano.»

O. Dazai, Lo squalificato

20 maggio 2025: un folto gruppo di persone si assiepa all’ingresso delle Gallerie dell’Accademia e, in attesa di iniziare il percorso, getta uno sguardo incuriosito intorno a sé. Si intravedono studenti e lavoratori, volti nuovi ed espressioni già note. La frenesia della sessione estiva non ha impedito che, in un mite pomeriggio di tarda primavera, ci si riunisse per un’ultima volta in un evento che mira a ricucire la distanza tra generazioni giovanili e complessi museali. Un progetto, nato dalla brillante collaborazione tra Polis e le Gallerie dell' Accademia, il cui impegno è quello di ridefinire lo spazio interpretativo dell’opera d’arte e di innestarne le componenti più suggestive nel panorama contemporaneo, circoscrivendone le coordinate storico-sociali ed evidenziandone gli elementi di modernità.

In risposta al dilagante disinteresse manifestato dalle nuove generazioni nei confronti del patrimonio culturale, l’intento è stato quello di ricondurre l’attenzione verso il prodotto artistico e, attraverso un innovativo lavoro d’interpretazione, di trascenderne le specificità contestuali. I Dialoghi alle Gallerie sono il risultato concreto di tale slancio: un ciclo di tre eventi durante i quali è stato definito un percorso museale alternativo che proiettasse la storia nel campo turbolento della contemporaneità. Il comitato organizzativo – composto da Laura Cerutti, Giorgia Del Fabbro e Matilde Riccardi – è stato affiancato da Michele Nicolaci, referente del Dipartimento Educazione e Ricerca, nell’ideazione di itinerari guidati che affrontassero ciascuno una tematica di forte urgenza politico-sociale.

Il primo incontro, svoltosi il 27 marzo, ha esplorato le zone più controverse della femminilità; il secondo, svoltosi il 10 e 11 aprile, si è addentrato nell’ecosistema chiaroscurale della città di Venezia e ne ha evidenziato i paradossi abitativi. L’ultimo, invece, ha affrontato una questione dallo spiccato carattere sociologico, la quale trova espressione all’interno degli stessi ambienti universitari: l’interazione relazionale percepita come performance, come agone istrionico durante il quale l’individuo è spinto ad esagerare certe componenti del sé in chiave competitiva. Lo smembramento del tessuto comunitario ha spostato il baricentro sulla singolarità individuale, conferendovi la responsabilità ultima della propria riuscita in ambito sociale. La massimizzazione neoliberista di qualsiasi aspetto dell’esistenza si è infiltrata all’interno del campo relazionale, impiantandovi un accanimento simil-lavorativo; in aggiunta, la costruzione di uno spazio digitale che emuli la socialità ha traslato le interazioni quotidiane nell’ottica dell’esposizione. La vita ostentata, piegata dai ritmi del lavoro e obnubilata dalla tecnologia, si è imposta sulla vita vissuta come l’unica esistenza socialmente accettata.

La società odierna si è affacciata alle porte del nuovo millennio con fervore prometeico, al tempo stesso serbando «la convinzione sempre più forte che l’unica costante sia il cambiamento e l’unica certezza sia l’incertezza» (Bauman). L’assioma della post-modernità e l’imporsi di un sistema economico ultra-capitalistico ha determinato una «riallocazione dei ‘poteri di fusione’» del contemporaneo, ove l’unica entità congiunturale non è costituita né dallo spazio né dal tempo – bensì dall’uomo inteso come ingranaggio monomiale piuttosto che associativo.

Una simile condizione, al giorno d’oggi esacerbata dalla standardizzazione dell’immagine perpetrata dai media, è sempre stata partecipe – seppur in minima parte – della socialità, e non manca di riflettersi sulla produzione artistica. A differenza dei precedenti Dialoghi, i riflettori sono proiettati sulla personalità autoriale piuttosto che su lavori specifici.

Per prima tappa ci confrontiamo con la virtuosa opera di Tiziano, massimo esponente della pittura veneziana del Cinquecento: l’insieme dei suoi componimenti artistici, se ordinato su un asse crono-biografico, ripercorre lo sviluppo di un’attività pittorica dapprima influenzata dalla maestranza giorgionesca e in seguito padrona del Manierismo.

L’Arcangelo Raffaele e Tobiolo (1), annoverabile tra i suoi lavori giovanili, si presenta come una classica scena bucolica: i colori miti si addensano all’interno di contorni fluidi e precisi, la cui compostezza cromatica sperimenta già la tecnica della pittura tonale. Il cane, simbolo di fedeltà, e lo stemma testimoniano con tutta probabilità il suo essere un’opera su commissione; la struttura interna è ben calibrata, resa dinamica dall’asse diagonale convergente con il dito dell’arcangelo. Insomma: un dipinto che manifesta una certa serenità amatoriale e da neofita. Dall’altro lato, invece, troviamo la Pietà (2). Un’opera che, fin dalla sua genesi, s’impone come testamento ultimo dell’artista: realizzata per la cappella del Cristo nella Chiesa dei Frari, essa fu intesa come ‘valuta di scambio’ per la successiva sepoltura di Tiziano all’interno del luogo di culto. La scena biblica, di per sé struggente, è impiantata all’interno di un quadro architettonico decadente e austero, la cui precisione strutturale si decompone nell’andamento nervoso della pennellata; i contorni sono sfumati, i punti luce radi e fulminei. S’intravede, nella comparazione tra i due lavori, la progressiva consapevolezza di un artista rassegnato all’artificio. In essa si riflette l’esigenza, tipicamente contemporanea, di dover ricercare nel sé una coerenza interna che, una volta estrinsecata nel contesto lavorativo, possa garantire una qualche affermazione. D’altra parte, la tensione superomistica scade in una gestualità manierata, la cui «autoreferenzialità autistica» si neutralizza nella passività. Il filosofo coreano Byung-Chul Han, coniando il termine Burnoutgesellschaft, arguisce che:

«Il soggetto di prestazione, che s’immagina libero, in realtà è incatenato come Prometeo. […] La società del XXI secolo […] è una società della prestazione (Leistungsgesellschaft). I suoi stessi cittadini non si dicono più ‘soggetti d’obbedienza’ ma ‘soggetti di prestazione’. […] Sono imprenditori di sé stessi.

[…] In conseguenza di tale generale positivizzazione del mondo, tanto l’uomo quanto la società si trasformano in una macchina di prestazione autistica

In un simile vortice si incaglia la personalità autoriale, la quale si adatta ai meccanismi produttivi della società dei consumi e non riesce ad intendersi al di là della propria performance creativa.

Altrettanto esemplificativo è San Marco libera uno schiavo (3) di Tintoretto, anch’egli esponente del Manierismo veneziano. L’inquadratura compositiva è assai dinamica: una profusione di figure affolla la scena, dispiegandosi in due direzioni antitetiche ai margini del quadro. Al tempo stesso, l’apparizione miracolosa di San Marco spacca a metà la ripartizione prospettica e conferisce all’opera, altrimenti sviluppata in larghezza, un accenno di verticalismo. Lo schiavo, il quale è sdraiato sul fondo della tela, si pone sullo stesso asse del santo e si propone anch’egli come punto focale dell’impianto scenico. La plasticità dei corpi, affiancata ai colori squillanti, eredita l’espressività michelangiolesca con artificiosità scenografica.

Lo stesso Tintoretto, rinomato per la velocità con la quale portava a termine i suoi lavori, si inserisce all’interno di un ambiente il cui perno portante è il soggetto prestazionale. La tensione ipertrofica delle figure rappresentate rimanda alla voracità performante di un ambiente tanto più accelerato quanto più saturo di stimoli: lo slancio fotografico, inconsciamente messo in atto dal pittore veneziano, cerca di catturare la fluidità dell’immagine in una successione di istantanee spasmodiche, le quali inseguono l’attimo e ricercano la quiete della durata nella frenesia del moderno.

Al giorno d’oggi il soggetto performativo si innesta in una temporalità frammentata, la quale prosegue a singhiozzi in una serie di attimi fulminei. La compulsione del consumo accartoccia la categoria interpretativa di tempo e accelera le tempistiche della produzione, dell’azione, dell’estroversione. All’interno di una realtà convulsa, le cui coordinate interpretative si radicalizzano nell’ipertensione, l’individuo istrionico si ripiega nel proprio sé e ricerca in esso la certezza perduta. Da essere schiavizzato si trasforma in essere narcisista, ostenta le proprie qualità affabulatrici con l’intento di risalire la gerarchia sociale e di prevaricare su di essa.

«A livello culturale – scrive Alexander Lowen – il narcisismo può essere visto come una perdita di valori umani: viene a mancare l’interesse per l’ambiente, per la qualità della vita, per i propri simili. Una società che sacrifica l’ambiente naturale al profitto e al potere rivela la sua insensibilità per le esigenze umane». In effetti, «c’è qualcosa di assurdo in un modello di comportamento che pone il raggiungimento del successo al di sopra del bisogno di amare e di essere amati»: l’individuo è alienato non soltanto dal vivere comune, ma dalla propria stessa persona. È impossibile rintracciare fin dove si estenda il personaggio recitato e dove l’essere genuino – fino a dove la ricerca dell’estetica sia finalizzata all’appagamento individuale o alla ricerca di affermazione.

Si tratta di un quesito dalla profonda ambivalenza che, nel passaggio ad un nuovo millennio, genera un’ulteriore scissione generazionale. La genitorialità, abituata a dinamiche relazionali non ancora potenziate ai fini del profitto individuale, è incapace di comprendere le specificità di una gioventù sclerotizzata, la cui «principale preoccupazione è dunque quella dell’adeguatezza: di essere ‘sempre pronti’, di saper cogliere al volo le opportunità, di sviluppare nuovi desideri tagliati a misura delle nuove, straordinarie e inaspettate seduzioni, di ‘darci dentro’ più di prima» (Bauman).

Il divario tra Giambattista Tiepolo e suo figlio Giandomenico offre ancora un ulteriore spunto di riflessione: al Castigo dei serpenti del primo si contrappone L’apparizione dei tre angeli ad Abramo (4) del secondo. La maestosità del lavoro del padre, il quale sviluppa in lunghezza una sequela vorticosa di scene dall’intensità drammatica, si intenerisce dinanzi alle tonalità auree, infiocchettate, dell’opera del figlio.


Sulle note di questo rapporto oppositivo si conclude la visita, la cui impostazione dialogica ha favorito uno scambio appassionato di opinioni e di idee. La composizione del Castigo può esserci d’aiuto nell’interpretazione dell’esistenza non tanto in qualità di palcoscenico, bensì come sentiero che si snoda nelle potenzialità indeterminate dell’apertura verso l’Altro. Non più messinscena, bensì arricchimento della propria esperienza di vita con quella di figure non complementari, ma protagoniste.

«Si cammina placidamente, guardandosi con curiosità attorno, non c’è proprio bisogno di affrettarsi, nessuno preme di dietro e nessuno ci aspetta, anche i compagni procedono senza pensieri, fermandosi spesso a scherzare. […] Così il cuore comincia a battere per eroici e teneri desideri, si assapora la vigilia delle cose meravigliose che si attendono più avanti; ancora non si vedono, no, ma è certo, assolutamente certo che un giorno ci arriveremo.»

(Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari)

Tutto ciò che possiamo fare è attraversare il deserto cercando di mantenere un passo che non ci de-umanizzi, che preservi l’eccezionalità del noi in relazione con l’Altro – della singolarità che, nel dialogo con l’esterno, si fa comunità.

(1) L' Arcangelo Raffaele e Tobiolo di Tiziano (sala VIII)

(2) Pietà di Tiziano (sala XI)

(3) San Marco libera uno schiavo di Tintoretto (sala XI)

(4) L' apparizione dei tre angeli ad Abramo di Giandomenico Tiepolo (sala 6)