Se Venezia muore

Itinerario artistico nella città di ieri e di oggi

Mariachiara Giglio, Federico Zanutto

4/22/20258 min leggere

«Venezia! Oh! ti rivedo, mia città prediletta…»

P. Valduga, Corsia degli incurabili

Dalle Città invisibili alle Città invivibili: il futuro rinnegato di una ‘città cartolina’

Il 10 e l’11 aprile, presso il suggestivo spazio delle Gallerie dell’Accademia, si è tenuto il secondo incontro del ciclo "Dialogo alle Gallerie", progetto nato dalla collaborazione tra la realtà giovanile di Polis e la sopracitata istituzione museale: il confronto tenutosi tra le organizzatrici dell’iniziativa – Laura Cerutti, Giorgia Del Fabbro e Matilde Riccardi – e Michele Nicolaci, referente del Dipartimento Educazione e Ricerca.

Per una seconda volta ha dato vita ad un evento dall’ampio seguito e dalla spiccata portata innovativa, il quale si propone di trascendere il divario generazionale e il crescente anacronismo riscontrato nei luoghi di cultura. Il progetto si compone di tre incontri, ciascuno caratterizzato da una tematica di forte attualità sociale. L’opera d’arte, analizzata nei suoi dettagli compositivi, viene sottoposta ad un lavoro di interpretazione collettiva e dunque ricontestualizzata, riproponendone gli elementi caratterizzanti in ottica contemporanea. Attraverso un simile procedimento è possibile rivelare la modernità intrinseca dell’opera, ricucendo la scissione tra presente e oggi, tra realtà giovanili ed istituzioni.

La tematica cardine del precedente incontro, tenutosi il 27 marzo, è stata quella di una femminilità autentica e tuttora inesplorata, la cui inquietudine sottende la creatività artistica nell’esigenza di una rappresentazione più consapevole. Il secondo evento, invece, si è soffermato su un quesito più circoscritto e dalle graffianti esigenze politiche: la città di Venezia, imbellettata ai fini di un turismo vorace, presenta ancora un’identità abitativa autentica? Sarà possibile immaginarla in una prospettiva a lungo termine che trascenda l’arricchimento individuale e la gentrificazione, nonché il totale snaturamento del profilo urbano?

Un interrogativo che impone una risoluzione assai pragmatica, oltre che un coraggioso lavoro progettuale. Una missione che sfugge dalle mani di chi, ormai, Venezia l’ha vissuta e ne ha accolto le contraddizioni come un simbolo della parabola discendente della sua ricchezza, e che oggi viene affidata al pensiero audace della componente giovanile.

Infiniti sono stati i tentativi d’interpretazione di una località tanto ambigua quanto magnetica, ma forse l’appellativo più adatto per racchiudere la natura di Venezia è quello di ‘città invisibile’. Presa in prestito dall’omonima raccolta di Italo Calvino, questa terminologia si connota di un’ulteriore funzione esegetica: Venezia città cartolina – ma anche Venezia città inesistente, città invivibile.

Le città invisibili sono quelle in cui «comandano regole non scritte, e per questo ancora più cogenti», come ad esempio una distinzione invalicabile tra «lo spazio urbanizzato e lo spazio naturale che lo circonda» (Settis, 2014) o, ancora, quelle in cui «la tensione fra l’atto fondativo» e «il lento dispiegarsi del tessuto urbano» (ibid.) competono in una perpetua dicotomia spazio-temporale, nella quale l’origine storica s’impone sulla realtà abitata. All’interno dell’architettura narrativa dell’opera calviniana Venezia si contraddistingue come un archetipo super partes dal quale sembrerebbero derivare tutte le altre città fantastiche. Non a caso il protagonista dell’opera, il celeberrimo Marco Polo, ne custodisce i dettagli con una certa fascinazione:

« – Resta una città di cui non parli mai, – disse il Kan. […]

– Venezia […].

Marco sorrise. – E di che altro credevi che ti parlassi? […] Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia. […] Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia. […] Forse Venezia ho paura di perderla tutta in una volta se ne parlo. O forse, parlando d’altre città, l’ho già perduta a poco a poco.»

I. Calvino, Le città invisibili (1972)

Ricorre spesso il rischio di romanticizzare una realtà urbana ormai allo stremo, per la quale si richiede un intervento non soltanto interpretativo, ma concreto (“draconiano”, suggerisce uno dei partecipanti all’evento). Forniamo un po’ di dati.

Nel 2000, i residenti delle zone San Marco/Castello/Cannaregio erano 40.447; quelli delle zone Dorsoduro/S. Polo/S. Croce/Giudecca erano 25.939: 66.386 abitanti in totale. Le statistiche del 2024 sono assai più cupe: 29.015 i residenti del primo agglomerato e 19.474 del secondo, per un totale di 48.489 abitanti. Non occorre un grande intuito matematico per constatare che, nell’arco di 24 anni, all’incirca 17mila residenti hanno abbandonato Venezia. Le percentuali di giovani la cui età è compresa tra i 15 e i 29 anni, invece, sono quelle più sorprendenti: 14,23% nel primo agglomerato e 14,19% nel secondo (2000) contro il 13,32% e il 13,37% (2024). In confronto alla decrescita totale segnalata dalle statistiche demografiche, la presenza dei giovani nella città sembra essere diminuita di pressappoco l’1%: una variazione a dir poco minima.

Cosa significano questi dati? Forse che, in una città i cui gli immobili vengono venduti ad una media di 3.270 euro al metro quadro, i giovani potrebbero essere l’unico baluardo per ripristinare un tessuto urbano de-naturato, preda di un turismo affaristico culminante nella cosiddetta disneyfication ossia la trasformazione commerciale di un ambiente in un parco giochi a cielo aperto, con tanto di biglietto d’ingresso.

Dalla ‘città cartolina’ alla ‘città delle opportunità’: i fermenti artistici della Serenissima

Venezia oggi si sta trasformando sempre di più in uno scenario artificiale, vissuto come esperienza estetica piuttosto che come spazio reale. Non è più solo una città, ma un’immagine da contemplare, un fondale perfetto da fotografare, un luogo da attraversare velocemente piuttosto che abitare davvero. Questo non è un fenomeno solo dei nostri tempi: ha radici lontane. Già nel Settecento, artisti come Canaletto (1) e il nipote Bellotto (2) contribuirono a costruire un’immagine ideale della città, attraverso quelle vedute minuziose e perfettamente composte che oggi sono diventate quasi sinonimo di Venezia stessa.

Le loro tele, realizzate con grande attenzione nei confronti dei dettagli architettonici, mostravano una Venezia luminosa, ordinata, quasi sospesa nel tempo. Non era una rappresentazione della quotidianità, ma un ritratto costruito per piacere, per affascinare. Queste immagini venivano acquistate soprattutto dai giovani aristocratici europei che, accompagnati dai loro precettori, affrontavano i lunghi viaggi del Grand Tour: un’esperienza pensata per arricchire la cultura e il gusto personale alla stregua del Viaggio in Italia goethiano. Per loro, queste vedute erano vere e proprie cartoline, souvenir di un sogno vissuto e testimonianza di un mondo raffinato, elegante, da portare con sé al ritorno.

Ancora oggi, molti turisti arrivano a Venezia inseguendo proprio quell’immagine: una città perfetta, senza contraddizioni, dove ogni scorcio è fotogenico, ogni edificio sembra tratto da un dipinto. La Venezia reale, con i suoi problemi, le sue fatiche, il suo quotidiano, viene così messa da parte, e al suo posto prende piede la “Venezia cartolina”, un luogo ideale, ma sempre più distante dalla verità. Una città bellissima, certo, ma sempre meno abitabile, sempre più simile a una copia di sé stessa.

Eppure, non tutti gli artisti del tempo condividevano questa visione. Francesco Guardi (3), ad esempio, mostrò una Venezia molto diversa rispetto a quella di Canaletto. Nelle sue opere, la città non è perfetta né ordinata. È vibrante, instabile, a volte addirittura malinconica. Le sue pennellate sono più veloci, quasi disordinate, e non cercano la precisione prospettica o l’equilibrio compositivo. Guardi dipinge una Venezia che cambia con la luce, con l’umidità, con il passare del tempo. Una città viva, che respira.

Le sue vedute sono piene di atmosfera: i palazzi sembrano emergere dalla nebbia, le figure umane sono piccole, sfocate, immerse in un paesaggio che non è mai davvero fermo. Guardi, in un certo senso, rompe l’incantesimo della Venezia da esposizione. Nelle sue tele si percepisce la fragilità del luogo, il senso del tempo che passa, una teatralità profonda che si oppone alla perfezione da catalogo. È una Venezia che somiglia di più a quella che ancora oggi possiamo cogliere nelle ore meno affollate, nei sestieri meno battuti: una Venezia nascosta, in controluce, più vera.

Oggi questa doppia rappresentazione – da un lato la città ideale, dall’altro quella più inquieta e reale – continua a influenzare il modo in cui Venezia viene guardata. La sfida, ora più che mai, è quella di andare oltre l’immagine da cartolina e restituire alla città la sua complessità. Perché se da un lato Venezia continua ad attirare milioni di visitatori, dall’altro continua a perdere abitanti. La città si comporta come una membrana che lascia passare facilmente i turisti, ma trattiene sempre meno i suoi cittadini.

Ogni giorno, migliaia di persone entrano in città, consumandone gli spazi e le risorse. Al tempo stesso, i veneziani se ne vanno. Spinti dal costo della vita, dalla scarsità di servizi, da un mercato immobiliare sempre più orientato verso l'affitto breve e le strutture turistiche, lasciano le loro case e cercano altrove una qualità della vita più sostenibile. È uno scambio impari: un flusso a senso unico che svuota la città della sua quotidianità e identità. Venezia rischia di diventare una superficie da attraversare, non più un luogo da vivere.

Questo tipo di pressione non è del tutto nuovo. Anche in passato, Venezia è stata un luogo difficile per chi voleva costruire qualcosa di personale, di diverso. È il caso, ad esempio, di Lorenzo Lotto (4) pittore veneziano del Cinquecento. Pur essendo nato e cresciuto in un ambiente ricchissimo di stimoli culturali, Lotto sentì il bisogno di allontanarsi. La competizione era altissima, dominata da grandi nomi come Tiziano, e per un artista più introverso, sensibile e spirituale come lui, lo spazio era sempre più stretto.

Lotto scelse di lasciare la città per cercare in altri luoghi – come le Marche o il Veneto interno – contesti più adatti alla sua pittura, più in sintonia con la sua visione umana e interiore. Un'opera emblematica di questo stato d’animo è Il giovane malato, conosciuto anche come Il ritratto del giovane gentiluomo, dove un ragazzo, pallido e assorto, sembra portare sulle spalle un dolore che va oltre la malattia fisica. Il suo sguardo è assente, il gesto della mano incerto. È il ritratto di una fragilità profonda, quasi esistenziale, la quale acquisisce i connotati metaforici: come Lotto, anche molti cittadini di oggi si sentono fuori posto, in una Venezia che non riesce più a ospitare le loro vite.

Ma nonostante queste contraddizioni, Venezia continua ad esercitare un fascino straordinario. Non solo sui turisti, ma anche su chi cerca uno spazio di ispirazione, di confronto, di fermento culturale. Lo dimostra, ad esempio, la storia di Giorgio Vasari (5). Toscano di origine, Vasari fu uno dei più grandi artisti e teorici del Rinascimento. Nonostante le differenze tra la pittura toscana e quella veneziana, scelse di lavorare nella Serenissima, riconoscendo nella città una straordinaria energia creativa.


Una delle testimonianze più importanti della sua attività a Venezia è la realizzazione delle nove tavole per Giovanni Corner, importante figura dell’aristocrazia locale. In questi lavori, Vasari unisce il rigore del disegno toscano con la ricchezza cromatica e sensuale della scuola veneta. È un incontro tra mondi, ma anche una dimostrazione di come Venezia possa trasformare chi la attraversa. Vasari non si limita a portare qui il proprio stile: si lascia contaminare, assorbe, reinterpreta.

Questo ci dice che Venezia, pur nelle difficoltà attuali, ha ancora una forza autentica. Il problema non è il desiderio di chi arriva, ma le condizioni con cui quel desiderio si realizza. Serve un nuovo equilibrio: non per chiudere la città al mondo, ma per creare le basi di uno scambio più giusto. Come accadde a Vasari, Venezia può tornare a essere un laboratorio di idee, un luogo dove vivere non sia un atto di resistenza, ma una scelta possibile. Una città che non sia solo uno sfondo, ma un orizzonte comune – per chi viene, e per chi resta.

(1) Antinio Canal detto Canaletto, Ritorno del Bucintoro al Molo il giorno dell'Ascensione (1732, Londra; Royal Collection, Windsor Castle)

(2) Bernardo Bellotto, Il Rio dei Mendicanti e la Scuola di San Marco (1740 circa; Venezia, Gallerie dell' Accademia)

(3) Francesco Guardi, Il molo verso Santa Maria della Salute (1775-1780 circa; Venezia, Galleria Franchetti alla Ca’ d’Oro)

(4) Francesco Guardi, Bacino di San Marco con San Giorgio e la Giudecca (1770 - 1774; Venezia, Gallerie dell’Accademia)

(5) Lorenzo Lotto, Ritratto di Giovane Gentiluomo (1530 circa; Venezia, Gallerie dell' Accademia)

(6) Giorgio Vasari, Allegoria della Fede (1542; Venezia, Gallerie dell' Accademia)