Uno sguardo al sistema universitario italiano

Luciano Campisi

6/13/20254 min leggere

In Italia c’è uno sport non riconosciuto, in cui tuttavia gli italiani eccellono: la lamentela. Una lamentela scoordinata, non informata, spesso fine a sé stessa. Non è importante avere un motivo per dar adito alle nostre voci, è fondamentale il fatto stesso di intonare una cantilena stonata e ripetitiva quante più volte possibili e aggiungerci al coro infelice dei non -rivoluzionari. Tra gli oggetti più noti di lamentele è il nostro sistema educativo: sempre disprezzato, bollato come inefficace e insufficiente; oppure elogiato a migliore al mondo, riecheggiando voci vintage che ci vogliono come portavoci (o ministri del tesoro) di una cultura millenaria di cui non abbiamo tuttavia imparato molto.

Ponendosi tra la lamentela disinteressata e l’elogio ignorante, questo articolo vuole mettere insieme qualche dato, fornendo una visione certamente parziale, ma comunque realistica, di quel che è il sistema educativo italiano – con un focus dovuto all’università cui appartengono sia l’autore che la maggioranza dei lettori: l’Università “Ca’ Foscari” di Venezia.

Il sistema universitario italiano ha radici antiche, con l’Università di Bologna, fondata nel 1088, come esempio emblematico. Oggi conta 97 atenei, tra statali, privati e scuole specializzate, gestiti dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. I corsi seguono tre cicli: laurea triennale (3 anni), laurea magistrale (2 anni) e dottorato (3-4 anni). L’accesso è aperto a chi ha un diploma di scuola superiore, anche se alcuni corsi prevedono specifici test d’ingresso. Le rette nelle università pubbliche variano tra 1.000 e 3.000 euro annui, con agevolazioni per redditi bassi, rendendo il sistema tra i più accessibili al mondo.

Tuttavia, ci sono limiti evidenti. I finanziamenti insufficienti si traducono in aule affollate, infrastrutture datate e poche risorse per la ricerca. La burocrazia rallenta le decisioni e riduce l’autonomia degli atenei. Molti laureati, soprattutto in ambito accademico e scientifico, lasciano il Paese per opportunità meglio finanziate all’estero, un fenomeno noto come “fuga di cervelli”.

Secondo il MIUR, nell’anno 2024-2025, i nuovi iscritti sono stati quasi 341.000, con una crescita rilevante di donne iscritte e il 5% di studenti internazionali. Si registra anche un buon afflusso di studenti nelle materie STEM, le quali offrono un buon tasso di occupazione post-laurea.

In un articolo del Corriere della Sera del 2018, si segnalava un rapporto ANVUR che posizionava l’Italia terza come produzione scientifica in UE, dietro a Francia e Germania — una posizione che è rimasta costante negli anni e che anche il Corriere, con un pizzico d’ironia, bolla come “miracolosa”. Difatti, la spesa italiana è inferiore del 25% a quella della media dei paesi OCSE: questo dato ci deve far riflettere. Il fatto che la qualità sia così elevata nonostante le risorse limitate, è un elemento rilevante: significa che la didattica è di qualità e la ricerca d’eccellenza e che noi non massimizziamo le nostre capacità. In un articolo di TGcom24, che riprende i dati della classifica mondiale delle università QS, emerge che l’Italia occupa il settimo posto nel mondo e il secondo in UE per quanto riguarda la formazione universitaria, con note di merito per ‘La Sapienza’ di Roma, per l’Università di Bologna e quella di Padova.

Oltre alla spesa limitata, ci sono altri problemi. La salute mentale è un problema serio: “l’Istat stima che il 33% della popolazione universitaria soffra di ansia e il 27% di depressione. Proprio questo malessere generalizzato, unito agli alti costi da sostenere, determina una rilevante messa in discussione della propria persona e del proprio futuro” – è quanto riporta un articolo de L’Espresso. Ricordiamo un triste episodio, quello del primo ottobre del 2024, che ha coinvolto proprio la nostra università: il suicidio di una studentessa ventenne. Sebbene la ragazza in questione fosse di nazionalità straniera, l’episodio rispecchia la pressione sociale elevata e la mancanza di un supporto psicologico adeguato all’interno delle università.

Un altro fattore di rischio è l’inverno demografico, che minaccia da vicino l’estinzione di alcuni atenei, specie al sud, là dove la migrazione interna è quasi nulla e la qualità dei servizi di ateneo minore. Chiudiamo la sezione con un altro dato, purtroppo negativo: la crescita incontrollata delle università telematiche: queste università, spesso di proprietà di fondi stranieri, hanno un rapporto studenti-docente estremamente squilibrato (384 a 1 contro 28 a 1 nelle università tradizionali) e un’alta percentuale di docenti a contratto senza adeguate verifiche sulle competenze, mettendo a rischio la qualità dell’insegnamento e degli esami, soprattutto con la modalità online. La svalutazione del titolo universitario e la formazione inadeguata degli studenti sono soltanto due delle problematiche che potrebbero sorgere. Rimandiamo a un articolo di Scienza in Rete per maggiori informazioni.

Venendo al nostro ateneo, bisogna segnare i progressi recenti: l’Università di Venezia è la più internazionale tra i grandi atenei italiani, secondo lo scorso rapporto del CENSIS. In generale, tra i grandi atenei occupa la quarta posizione, con eccellenze europee e mondiali negli ambiti letterari e linguistici, con una crescita del settore degli studi politologici e internazionale, e una reputazione eccellente in quello economico. A conferma della buona qualità dell’insegnamento, corre il QS World University by Subject, che include nella classifica ben 16 discipline cafoscarine. Inoltre, in quanto “comunicazione e servizi digitali” Ca’ Foscari si piazza seconda in Italia.

I problemi di Ca’ Foscari li conosciamo: scarse strutture di housing, la cui insufficienza è sia dettata dai fondi statali, sia anche dall’ostinazione a costruire in centro storico, nella Venezia lagunare, spesso ignorando gli spazi pressoché enormi offerti da Mestre e Porto Marghera. Le sessioni d’esame sono inoltre di breve durata, con appelli limitati, esami tra di loro troppo vicini e accavallamenti che non costituiscono un’eccezione, ma quasi la normalità. Inoltre va segnalato l’anacronismo che pervade il settore linguistico, che prevede il salto d’appello per le lingue occidentali ed orientali.